“Entrate, è una piccola casa ma potete ripararvi”. Entrando, vediamo esposto un biglietto con una scritta: “Benvenuta, Chiara!” e disegnato un cuore. Ci ha invitato a sederci e abbiamo iniziato a parlare.
Oggi, sono stato molto turbato da una frase detta di sfuggita da un giovane padre di una bambina tenuta in braccio dalla madre, incinta già del secondo figlio. Poco più di 18 anni lei, 22 lui. Il padre è arrivato mentre facevamo visita, in favelas, alla sua famiglia, inserita nel progetto Coração (per info: www.nuoviorizzonti.org).
Quando ci ha visti, ci ha accolto in casa sua con grande dignità e senso dell’ospitalità. In mezzo al fetore di una favelas sporca e abbandonata, ci ha invitati a ripararci dal caldo torrido dei 40 gradi tipici del deserto brasiliano.
In Brasile, la maggior parte degli uomini in favelas sono alcolizzati e violenti. Lui invece era lucido, un po’ sconsolato perché il suo asinello gli era scappato da poco. L’asino è il suo prezioso mezzo per lavorare; infatti, il suo lavoro consiste nel caricare la legna sull’asino, trasportarla e sotterrarla mentre prende fuoco avviando così il processo di combustione che produce carbone. Vende un sacco di carbone a 10 reais e riesce a venderne 9-10 a settimana.
Per cui, se tutto va bene, guadagna 100 reais a settimana ovvero 21 euro con cui cerca di sopravvivere. Mentre mi raccontava del suo lavoro, percepivo quanto fosse forte la sua volontà di provvedere alla moglie, alla figlia e al bambino in arrivo.
Mi ha spiegato che la casa fatta di mattoni l’aveva ottenuta in prestito da suo cognato che abitava in quella di fronte, fatta totalmente di fango seccato in mezzo a bastoni torti che fanno la struttura di una capanna. Ero là con don Tonino; più tardi ci hanno raggiunto Chiara, Sandra, Dania, Lidjana e Guido.
Quando l’uomo ha visto la macchina fotografica, si è coperto il volto dicendo: “Eu tenho vergonha!”. Lo abbiamo tranquillizzato rispettando il suo sentimento.
Ma quella frase mi è rimasta dentro tutto il giorno e tutta la notte: “Eu tenho vergonha!”.
Lui non deve avere vergogna. Lui è un uomo che si spacca la schiena per portare a casa il pane quotidiano. Non ha colpe per ciò che vive. È solo nato in un luogo preciso senza possibilità di riscatto. Potevamo esserci tutti noi al suo posto senza merito o demerito.
Sono io, siamo noi che dobbiamo avere vergogna di come viviamo incuranti del prossimo, di come pensiamo di essere migliori solo perché più fortunati, di come siamo ingrati verso la vita, le persone e il Cielo, di come amministriamo i beni che abbiamo, di come sprechiamo beni come l’acqua e il cibo, di come inquiniamo la terra, di come ci relazioniamo tra di noi, di come guardiamo gli altri dall’alto al basso, di come ci voltiamo dall’altra parte verso un mondo che mendica amore e aiuto lasciando che quelle mani tese restino senza risposta.
Lui non deve “tenere” vergogna. Nessuno di noi deve avere vergogna di schierarsi dalla parte di chi è debole, fragile, indifeso, indigente. Io da oggi non voglio più avere vergogna!
“Eu NON tenho vergonha”! Deve essere questo il nuovo grido. E chi deve avere vergogna è piuttosto chi schiaccia, usa, abusa e strumentalizza questo popolo di fratelli e sorelle che un giorno ci chiederanno conto di cosa abbiamo fatto della nostra libertà.
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